Giovan Bartolo Botta

Archive for the ‘Cronache Roma Fringe Festival 2015’ Category

PERIODICO ITALIANO MAGAZINE, intervista a Giovan Bartolo Botta.

In Cronache Roma Fringe Festival 2015, rassegna stampa on settembre 10, 2015 at 4:56 PM

http://issuu.com/periodicoitalianomagazine/docs/pim13_luglio_agosto2015_b4dc02efc1ddf4/c/sc1in9z

Periodico Italiano Magazine Intervista

Premio della critica Funweek.it per VALLI A PRENDERE

In Cronache Roma Fringe Festival 2015, in scena, rassegna stampa on luglio 7, 2015 at 11:13 am

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Premio della Critica Funweek.it Roma Fringe Festival 2015:

Giovan Bartolo Botta per “VALLI A PRENDERE”. Sez. Comedy

Cronache Fringeriane 13 Roma Fringe Festival 2105

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 24, 2015 at 4:56 PM

L’uomo dei finali… goodbye albero azzurro.

L’essere umano responsabile dei finali possiede suo malgrado il letale fiore nella bocca di pirandelliana scarabocchiatura. Gigantografiche sono le sue responsabilità. Molteplici gli oneri. Sottovalutati gli onori. Snobbati i meriti. Il suo quadrante astrale è convesso quanto un anulare raccordo edificato su di un anello Saturno. Oscilla tra l’elemento aerico e l’elemento terracino. Ruggiti savani danno fuoco all’ascendente. Un apparente equilibrio dimora in luna. L’essere umano responsabile dei finali desidera il mutamento degli incipit. Brama lo stravolgimento degli svolgimenti. Auspica lo sciabordio della complicata vicissitudine umana. Boriose lezioni di catechismo impartite in separato oratorio nonché emittenti televisive lungi dall’essere blasfeme deturparono i migliori anni dell’essere umano responsabile dei finali, disturbandone il sonno e arrestandone la crescita. Egli, come un uomo proveniente dal monte, disse basta. Basta con i vari Dodo Pulcino Besugo, Lupo Luciferino, Megera Verena, Strega Morocchina, Pegolo Pinguedine Gottoso, Folletti Colesterolici, Piccoli Principi Viziosi e Viziati, Gnomi Avvinazzati, Principesse Butterate e altri protagonisti della prosa ideata a uso e consumo di fantolini nutriti a dado e Milupa. L’essere umano responsabile dei finali gongola nel rivoluzionare copernicamente il teatro ragazzi. Per dare adito a questo suo sogno proveniente dall’età dell’innocenza, si iscrive al partitocrame politico sino ad arrivare ad occupare la poltrona di ministro. Dicastero del culturamificio con annessa delega alle arti sceniche. Da quel giorno, i bambini, ancora semplici spermatozoi sonnolenti, prigionieri di sacche scrotali paterne, sono obbligati dall’istituzione a sobillarsi turbamenti strindberghiani, assurdità beckettiane, solennità bardine, riformatorismi goldoniani, anti-aristotelismi brechtiani e via discorrendo. Elencando. Il modello formativo melevisionesco è bandito da palcoscenici e palinsesti. I gloriosi protagonisti delle filastrocche melevisioniche, dal tossicomane Tonio Cartonio al ludopata Gianni Muchacha transitando per i logorroici folletti Baugigi, sono condotti alla cautelare custodia, sommariamente processati da un giudici terzo (Cristina D’Avena), condannati da una giuria di non addetti ai lavori e fucilati in quanto elemento di imbarazzo per lo stato. La prosa ordinaria è altresì obbligatoria come la leva militare o il diploma di scuola media inferiore. Non sono previsti obiezioni della coscienza. O ti rechi a visionare quei sei personaggi in cerca di autore che poi si decurtano non riuscendo a trovare il fottuto autore oppure… pena capitale. Le poche bubbole fantoliniche rimaste in circolazione sono mutate nei truci allarmi dalle apposite commissioni. Due casi hanno fatto da spartiacque. L’uomo dei finali li espose ad una agitata seduta parlamentare ripresa dalla televisione nazionale. Cappuccetto rosso. Nella versione patriarcale della storia ella è una bambina incapace di distinguere sua nonna da un lupo famelico. Molto diseducativo. Cappuccetto rosso svestirà i panni del cappuccetto rimanendo rosso e basta. Conoscerà il lupo ad un ballo in maschera. I due si innamoreranno tanto da vicendevolarsi struggenti soliloqui d’amore affacciati ad un balcone. Purtroppo le rispettive famiglie non si possono tollerare. Appartenenti a differenti fedi calcistiche del cartello malavitoso veronense. Clivensi i Cappuccetti. Scaligeri i Licantropi. La coppia di spasimanti domanda coadiuvo ad un sacerdote progressista dalla lungimirante visione. Padre Francesco. Un gesuita almagrense emigrato sulla riva gardense per praticantare ortodossia ad un nugolo di pagani padani. Il loyolano vestito del proverbiale saio, unisce i colombi in matrimonio. Il parentado si oppone decretando così la dipartita dei figli. I quali si daranno la morte ferendosi i costati con un cestino da picnic. I tre porcellini. Nella versione maccartista della storia sono tre saputelli antipatici zimbellatori di simpatici cani selvatici. Lupo Ezechiele è un predatore maccabeico. Sogna i tre suini trasformati in succulente costine nonostante le sue longitudini natali vietino l’uso della carne rosacea. Molto diseducativo. Lupo Ezechiele sarà invece un amorevole padre che al termine di un’esistenza costellata dal sacrifizio desidera lasciare in dote i suoi averi a uno dei tre figli. Il più meritevole. Il patriarca convocherà a sé i tre geniti sottoponendoli ad interrogatorio. Chi tra loro mostrerà più amore verso le canizie del vegliardo? Porcellino Gonerillo utilizza soluccheri: “Lupo Ezechiele vi adoro, e non esiste sostantivo umano che valga ad esprimerlo. Vi amo più che la visione dei bulbi miei oculari. Vi obbedisco ponendo limite al mio libero arbitrio. Vi accarezzo ignorando ricchezze e titolarità nobiliari.”
Porcellino Regano branzina i piedi come e più del fratello: “Lupo Ezechiele. Lievito siccome fatto della medesima pasta del mio prezioso congiunto. Mi stimo del suo stesso pregio. Apro i miei sentimenti squarciandomi il petto ma in più mi professo nemico dell’altrui vizio defungendo in un vostro bacio.”
Sui loro atteggiamenti Lecchini contrasta la sobrietà di porcellino Regano: “Caro Lupo Ezechiele, io nulla vi dirò, e se dal nulla nulla si ricava, maleditemi come Re Lear maledisse la più giovane delle sue figlie, e tanti saluti al buffone di corte.”

L’uomo dei finali asfalta il teatro ragazzi. Non ci va per il sottile. Approva riforme a colpi di fiducia. Muta variopinte drammaturgie a seconda dell’umore. Sbatte sul lastrico vecchie glorie pupazzare. Cancella finanziamenti con un semplice tratto di lapis. Egli è l’uomo giusto seduto su una poltrona che scotta… durerà meno del solstizio invernale evitando di guardarsi le spalle dalle idi di marzo… il congiurato moderno somiglia ad un albero azzurro.

Cronache Fringeriane 12 Roma Fringe Festival 2015

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 19, 2015 at 4:15 PM

To be or not to be Chaplin. Il restante è silenzioso.

Lo spettacolo si apre udendo le gutturalità baritonali del gigante interprete britannico settecentesco David Garrick che recita impavide dubitatività amletiche. Questa scelta stilistica all’apparenza slittante e spiazzante vuole ricordarci che tutti noi, indipendentemente dal ceto, censo, religioso credo e sociale condizione, davanti ai grandi o piccoli dilemmi della vita altra compagnia non abbiamo se non la nostra. A volte nemmeno quella. Si spalanca la seduta psicoanalitica. Il genio della comicità mondiale Charlie Chaplin settato sulla brandina arcantara esplica all’analista il più complesso dei suoi crocicchi capace di condurlo sull’orlo della deprimenda: l’infinita rivalità con il gessato Buster Keaton e l’arrembante Harold Lloyd. Una via crucis che sfocerà inevitabilmente in uno dei sentimenti più deprecabili del sensare umano. L’invidia. La Metro Goldwyn Mayer, casta produttiva cinematografica, cerca disperatamente un giovane comico dalle radiose speranze da affiancare allo scafato duo zuzzurellone Oliver Hardy e Stan Laurel. Vengono organizzate delle audizioni negli uffici della MGM. Tra i numerosi saltimbanchi spiccano i cognomi del trittico Lloyd, Keaton, Chaplin. Curiosamente raccomandati dall’area politica progressista dell’emiciclo parlamentare statunitense. Buster Keaton era l’amante della senatrice democratica del Kansas Doreliana Spencer. Harold Lloyd era un noto frequentatore dei salotti buoni. Charlie Chaplin, natio londinese da poco trasferitosi a Nuova Babilonia senza visto, aveva intessuto un’amicizia blanda con un senatore democratico del Wisconsin tale Taylor Betancourt Lozano. Un ispanico importante quanto un due piccato. Bisogna fare dei distinguo però. Mentre il ridolino britannico risultava essere ancora acerbo sul palcoscenico, al contrario Lloyd e Keaton apparivano a loro agio, in quanto si erano forgiati le ossa elargendo chiose ridanciane dentro locali notturni dall’origina dubitativa. La proverbiale gavetta necessaria anche al comedian maggiormente scafato. O al clown obbligatoriamente bugiardo. Il piatto forte della casa per i due amerindi era la maschera. Allegramente malinconica quella del mingherlino Keaton. Realmente surreale quella del marmoreo Lloyd. L’orizzonte chapliniano pareva presentarsi nebuloso. Buster e Harold impressionarono i veterani Stanlio e Ollio, i quali costrinsero la produzione a scritturarli entrambi per poi fungere loro da chiocce. Chaplin incassò lo sganassone alla bocca dello stomaco. Cominciò a soffrire di invalidanti disturbi somatoformi che scatenarono nella sua mente pericolosi pensieri suicidatari. La dissociazione somatoforme, all’epoca catalogata dai prontuari medici sotto l’etichetta di nevrosi isterica dall’origine psichica con sfogo somatico, è una patologia tendente alla cronicizzazione. In quei tempi grami caratterizzati da fame d’aria e sete di successo, la ricerca farmacologica era una cura peggiore del male. Le sedute di ipnotismo regressivo praticate da luminari quali Charcot o Breuer utili a debellare la sintomatosi, possedevano costi proibitivi per le tasche bucate dello squattrinato attore londinese. L’unica via d’uscita era gettarsi a capofitto nel lavoro cerando così di contenere lo scatenarsi del disagio. Il virgulto Charlie prese a macinare bottega sino ad arrivare alla corte dell’augusto espressionista teutonico Karl Valentin. Il pagliaccio dal trucco omeopatico e dalla satira curandera. Egli accolse Chaplin sotto la sua ala protettiva. L’allievo imparò dal maestro tutto. Forse anche qualcosa di più. Perfezionando tanto il repertorio comico quanto quello drammatico. Il suo stile si fece unico. Ibridato. Terribilmente soggettivo nonché fottutamente personale. Originale. Adesso si sentiva pronto. Completo. Caliente a dare adito al suo innato duende demonologico. Si inventò un alter ego. Un buffo individuo pezzuolante dotato di bombetta, bastone da passeggio, baffetti alla caudillo, andatura alla Pippo, contabilità rubra e melanconia del volto. Una sintesi di versatilità scenica. Questa macchietta senza superficie perché intrisa di profonda umanità riuscì a riscuotere un successo senza precedenti. La sfida ai loschi Lloyd e Keaton era rinnovata. Gettato il fellonico guanto. Mutato l’esito. Parafrasando l’Humphrey Bogart schiavo dello star system: è la nemesi, bellezza! Chaplin prese a guadagnare dobloni autogriffando contratti mentre i suoi due avversari scivolavano nella cantina del dimenticatoio. L’avvento del sonoro fu la scure calata sul cippo del boia. La mazzata finale. L’insormontabile ostacolo. Buster e Harold non compresero le potenzialità del nuovo mezzo espressivo. Al contrario, Chaplin, gessatura comica dotata di impostazione vocale accademica sintonizzata sulla tonalità bassa, brancò il sonoro modellando a sua immagine e somiglianza. Se Harold Lloyd terminò i suoi giorni itterico in volto e cirrotticato nell’organo sintetista enzimico, Keaton subì la più pesante delle umiliazioni. Senza più un ghello e dimenticato financo dal parentado prossimo, venne scritturato da Chaplin in una sua pellicola. Il ruolo da adempiere era poco meno del cammeo. Quando Keaton transitò a migliore esistenza, un Chaplin in stato grazievole, volle omaggiarlo interpretando il personaggio di Calvero. Un comico dal talento debordante precipitato anzitempo sul viale del tramonto. Praticamente ascesa e caduta dell’ex rivale Buster Keaton. Ma come sottoscriverebbe il pedemontano autore Cesare Pavese, la nemesi altro non è che un vizio assurdo. Un Chaplin all’apice del successo venne lentamente ma inesorabilmente scalzato dal nuovo asso americano del prime time. Mister Jerry Lewis. Un paraculo che pur di lavorare sarebbe stato disposto a venire a patti con Satana. Lucifero rappresentato nella fattispecie dal senatore repubblicano Joseph McCarthy. Quello della caccia alle megere comuniste. L’affronto fece precipitare Charlot negli abissi della dipendenza da sustanziale etilico. Con allegato farmaci. Quei farmaci ancora imperfetti durante i primordi del suo disturbo nevrastenico. Il sovrano del sorriso terminò la sua carriera facendo il servo della scena a una coppia di incapaci come Gianni e Pinotto. Da tastarsi la sacca scrotale a duplice mandata…

Oscillando tra la prima e la terza persona attraverso i malanni chapliniani, lo spettacolo To be or not to be Chaplin obbliga la comicità a sostenere la prova del nove sottoponendo i comici al vaglio del giudizio universale. La sentenza non può che essere purgatoriale poiché ci si uccide pur di rubarsi una battuta, ma la nemesi, si sa, è un vizio assurdo e anche il fulmicotonico Jerry Lewis fu costretto ponderatamente ma inevitabilmente a cedere lo scettro della comicità… a Pippo Franco.

To be or not to be Chaplin. Una risata seppellirà… chi la provoca.

Cronache Fringeriane 11 Roma Fringe Festival 2015

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 18, 2015 at 4:59 PM

Canzoni sull’orlo di una crisi di nervi. Mas que en clube.

Prima del definitivo sputtanamento personale ed artistico avvenuto prestando la sua immagine mediterranea come testimonial di una nota marca fabbricante dolciumi al propetilene, Antonio Banderas detto labbro superiore è stato un notevole protagonista della complessa scena teatrale iberica novecentesca. Un talento prosaico capace di spaziare dal lirismo shakespeariano al ghigno plautino transitando per lo spicciolo psicologismo ibseniano. Senza abbandonare all’incuria patimenti euripidei nonché petulanti digressioni pirandelliane. Un poliedra del palscenio dotato di un registro vocale talmente variegato da far sembrare il variopinto interprete britannico Peter Sellers un kazoo monotonale. Ma ripercorriamo velocemente le tappe dell’ascesa teatrale banderica curiosando a ritroso nella sua carriera. Tutto ebbe inizio con un difficoltoso provino sostenuto bramando l’ammissione ai corsi d’arte drammatica insegnati all’Accademia Lope de Rueda presso Malaga. Sua città natale. La commissione esaminatrice presente all’epoca possedeva la sembianza della caudina forca. Il direttore artistico era il burbero Carlos Lobos Sanchez detto il mugnaio a causa di una singolare abitudine. Quella di infilare spighe di grano nei bulbi oculari degli attori scritturati per ottenere da loro l’essenza della verità scenica. Un gradino sotto Carlos imperava la mordace Aurora Navarro, meglio conosciuta come Dobermann data la sua particolare passione per metodi recitativi medievali quali la tortura della ruota e il rilassamento muscolare previo utilizzo della chiodata palla. La triade vetriola si completava inserendo la figura della pulsatilla Teresa Valentin, gigantesca primattrice della compagnia stabile dotata di un apparato fonatorio talmente potente da far tremare montuose catene pirenee. Il giovane Antonio, all’epoca ancora distante dal divenire l’attuale sex symbol, si presenta davanti alla comitatura indagatrice intonando il celeberrimo motivetto musicale brechtiano tratto dall’opera da trenta dinari: Di cosa vive l’uomo? L’emozione è tale da giocare al malaguense un tiro mancino. Rospetti psicosomatici paralizzano le corde vocali del promettente artista. La fascia muscolare diaframmatica responsabile della corretta respirazione, appare talmente tesa da poter essere utilizzata come tapisroulant in una palestra adibita a cardiofitness. Come se non bastasse, tre denti del giudizio su quattro pensano bene di capolinare sulla gengiva del tenebroso attore proprio la mattina dell’audizione, rendendo l’articolazione della battuta lenta e faticosa. Dulcis in de profundis dimentica la parte a memoria. I sogni bardini dell’andaluso paiono sin da subito riposti nella soffitta dell’arrendevolezza. Siamo agli sgoccioli della dittatura franchista. Ancora imperversa la legislatura marziale. Il mancato ingresso tra i saloni della posa avrebbe comportato per il futuro mariachi un’entrata in gran carriera nell’esercito franchista adempiendo all’obbligatorio servizio levantino militare. Servizio di leva che in epoca franchigena durava la bellezza di un quinquennio. Un lustro trascorso tra picchetti e gavettoni d’orina. Non proprio il massimo. Ma è nel momento del bisogno, quando si consumano continui amplessi con la disperazione e si cantano serenate alle voltate spalle che il talento accompagnato dalla perseveranza possono fare la differenza. Riportando positive energie su di un viale che pareva essere destinato verso un precoce tramonto. Con le corde vocali aride e il plesso addominale bloccato, Tonino, abile dei suoi studi teatrali autodidatti, muta la cassa risonantica indirizzando altrove la battuta ed imbeccando così l’elevata nota. Ovviamente improvvisando il testo. Dicesi metodo Rolfing. Accompagnato dall’associazionismo libero. È il deliquio! Il delirio! Il trionfo! La commissione competente balza in piedi consumando palamenti d’applausi e intonando trionfali inni nazionali. Era nata una promessa dello show business spagnolo. Voci corridoiche affermano che il caudillo Franco trattò la resa incondizionata dopo una serata trascorsa alla Spada de Madera, ascoltando Banderas recitare le gesta ambigue del sanguinario Riccardo Terzo. Un dittatore ante litteram. Si disse che il cinico Francisco Franco si commosse fino alle lacrime, immedesimando forse nella triste epopea del regnante storpio. Un’esistenza, quella di Riccardo di Gloucester, caratterizzata da abbandoni materni e scherni adolescenziali che lo portarono a incamerare rabbia e senso della rivalsa. Banderas quella sera seppe titillare tonalità liriche riportando nolentemente la democrazia nel paese. Potenza del teatro! Da quel giorno onorificenze a ritmo pappagordo funsero da suppellettili tra le domestiche mura del Banderas. Il teatro però esige sottomissione incondizionata nonché fedeltà eterna. Due elementii che l’andaluso non era disposto a negoziare. A lui garbava la vita. Quella vera. Non la vita protetta da un sipario gesticolando sull’orlo del boccascena. Il definitivo trasferimento a Madrid passerellando sfilate e snufolando passerelle contribuì ad allontanare Antonio dalle assi legnose del palcoscenico. Il restante è biografia non autorizzata. Alter ego almodovariano, partner professionale della signora Ciccone, regicida del mambo, suggiplasma a tradimento, marito della proibitiva Melanie Griffith e dulcis in de profundis un San Francesco in versione laica senza saio che disquisisce con capre e galline di merendine al cioccolato e biscotti al marzapane occupando un casolare abbandonato senza pagarne l’affitto. La promessa dello show business era deceduta.

La peperina Pepa Lopez de Leon, promettente nipote della sovrana del teatro iberico Maria Luisa Ponte Bazizza, parentela scomoda che può scatenare ingiusti parallelismi, ripropone cantandolo e frizzoberleffandolo, il tormentato rapporto tra lo Zorro andaluso e il suo primo amore: la prosa. Un sentimento interrottosi sul più bello a causa della semenza dantesca moderna: i soldi.

Canzoni sull’orlo di una crisi di nervi… calmabili prescrivendo una felice decrescita.

Cronache Fringeriane 10 Roma Fringe Festival 2015

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 15, 2015 at 6:06 PM

Santi balordi e poveri cristi… Shaolin money

Veniamo catapultati al termine degli edonistici anni ottanta. Melo è il diminutivo di Danny Mellor. Talentato centravanti della gloriosa Muppet. Il ragazzo è triste. Amletici dubbi lo assalgono al crepuscolo rovinandogli il sonno quanto le megere rovinarono il riposo allo squilibrato Macbeth. Specie da quando una triste notizia gli ha deflagrato il padiglione auricolo. Le sfere cuoiche con le quali si diletta la domenica, vengono cucite a mano da fantolini provenienti dalla zona bassa del circolo equatoriale. Parafrasando l’Oscar Luigi Scalfaro d’antan, Danny non ci sta. Come se non bastasse, l’aria che si respira nello spogliatoio è pesante. Un tafanario. L’ambizioso Mark Landers, suo capitano nel club, alza spesso la voce obbligando i compagni a colpire con la fronte una palla medica pesante quanto la Mole Antonelliana subalpina. Il fiato viene spezzato correndo a plantari nudi su una spiaggia seminata di siringhe e tornita da radiazioni ioniche. Danny possiede il misurino colmo. Lascerà il calcio giocato al termine del campionato mondiale. Lo farà da trionfatore grazie ai suoi assist, capaci di traghettare la nazionale nipponica alla conquista del titolo finale. Durante il match di congedo lacrime amare solcano i visi dei sempiterni colleghi. Il volto del playmaker Oliver Hutton somiglia ad un salice piangente. I roditori gemelli Derrick catapultano infernali grida doloranti. Julian Ross, il fuoriclasse, già martoriato dal congenito difetto cardiocircolatorio, stramazza al suolo colpito da aneurisma pneumotoracico. Edward Warner detto il felide non si dà pace divorando bulimicamente croccantini graminacei. Così come Benji Price, il raccomandato, che obbliga l’entourage a calcare il terreno in erba indossando il lutto al braccio. Bruce Harper, conosciuto come lo scarpone, osserva la scena senza trasparire emozioni. Odiava Danny. Entrambi erano calvi ma Mellor al contrario di lui dava del tu al pallone e gli sponsor offrirono a Danny i contratti maggiormente appetibili. Compresa la Proglabraso, nota marca di gelatina per cuoia capellute. Luciano Moggi, la faina, procuratore del giocatore Danny Mellor, proverà a far cambiare idea al suo assistito. Niente da fare. Il futuro del ragazzo sarà nella politica attiva.

Danny bussa alla porta della sezione di partito. P.P.N. Il glorioso partito progressista nipponico. La fazione idealista dell’emiciclo parlamentare giapponese. Il giovine rispetterà la proverbiale gavetta cominciando come semplice attacchino per poi scalare le rapide arrivando ad occupare la segreteria del partito. Un vero talento di scatenato arrivismo. Una volpe della cosa pubblica allevata sotto l’occhio vigile dei quadri di partito. I vertici dell’apparato nazionale vedono in lui il possibile futuro sindaco di una metropoli impegnativa qual è Tokyo. Si muove la macchina elettorale. L’apparato burocratico. Il pachiderma comunicativo. Mellor sarà incoronato primo cittadino tokycense inglobando anche i voti dell’inesistente opposizione. Il frugolo è intriso di buoni propositi. Tant’è che il suo primo ed unico provvedimento sarà inondare i quartieri della città con quantità industriali di bitume cementifero. Giganteschi stadi utili ad ospitare inesistenti manifestazioni sportive accompagnati da sterminati parchi giochi solleticanti il diletto di fantolini debosci e sconquassati nuclei famigli. I palazzinari piegheranno la giunta comunale utilizzando fendenti dazionistici ambientali riuscendo così ad ottenere la qualsivoglia concessione. Inutile la resistenza partigiana messa su dalla comitatura cittadina. Cinico come un feroce monarchico generale Bava Beccaris, Mellor darà ordine alle forze armate di dare adito ai fucili scaricando sulla folla indifesa quantità piombine a gitto catenomontato. Le nuove costruzioni esigono spazio. Lo spazio è poco. Bisogna crearlo. Verrà firmata un’ordinanza abile a deliberare la demolizione dello storico centro cittadino tokycense, risalente addirittura alla dinastia imperiale degli Yavon e considerato dall’Unesco irrinunciabile patrimonio dell’umanità da proteggersi anche a costo della vita. I residenti verranno gentilmente accompagnati in dei container edificati a pochi minuti di macchina dal centro di… Okinawa. Isola sperduta tra i sargassi. Il primo dei parchi giochi con annesso centro commerciale è pronto. Venuto su presentando costi decuplicati in tempi triplicati. Il prezzo del biglietto d’ingresso è talmente esoso da instillare interrogativi d’entrata financo ad un magnate come Timothy Rockefeller. Zufolano le fanfare. L’impianto sportivo spalanca i cancelli ospitando un match tra brocchi ripreso dalle emittenti televisive planetarie e trasmesso in mondovisione. Il baraccone principalmente attrattivo frana disgraziatamente a terra per un guasto tecnico dovuto ad errore umano. Le forze del disordine giungono mancicche predisponendo i sigilli. Il paese dei balocchi è posto sotto sequestro dall’autorità giudiziaria. Scattano i braccialetti ai polsi del primo cittadino e dell’intera giunta comunale. La guardia tributaria sottrae inesistenti registri contabili. Un pubblico ministero montenerobisaccino interroga il sindaco Mellor, il quale si avvarrà della facoltà della non risposta. Si ouverturano per lui le patrie gattabuie. Il partito abbandona la sua creatura umana lasciandola marcire nei meandri dell’isolamento, lui stolto mariuolo unico frutto marcio custodito per sbaglio dentro una cesta di immacolata concezione politica. Compresa l’antifona il prodigioso Mellor opterà per il definitivo congedo tramite rivoltella su tempia. L’anima schiava giunge innanzi al custode del campo elisio, l’apostata Pietro fondatore della sacra capitolina cattedrale. Il patriarca come un ottimo irremovibile giudice negherà all’ex fluidificante l’entrata nell’empireo. NON PER MOLTO. Danny dal fiuto tartufino aveva pensato bene di salire al cielo accompagnato dall’inseparabile mazzetta. Il rotolino pecuniario utile ad aprire porte, portoni, portali e portantini. Anche i santi poltrenti in paradiso tengono famiglia. La contemplazione eterna può avere inizio poiché se è vero che gli ultimi saranno i primi, i primi non saranno mai ultimi. L’INDULGENZA è una questione di I.B.A.N…

Alternando soliloqui e motivetti canori cari al patrilinearesimo, le due fromboliere di scena ci narrano l’epopea di una corruttela capitale in salsa sol levante. Lo fanno senza aggredire la scena bensì disciplinandola come in una pièce a quadri fuoriuscita dalla penna dell’ex galeotto Jean Genet. Si cercano molto su palco tradendo probabili simpatie per la recitazione antimetodista a marcatura libera. Quella alla patron Gigi Radice, tanto per capirci. Una narrazione non ortodossa che accarezza il molto discusso universo nomade. Qui però… non sono previsti sgomberi.

Santi Balordi e Poveri Cristi…ossimorologia scenica.

Cronache Fringeriane 8 Roma Fringe Festival 2015

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 13, 2015 at 5:46 PM

La vera vita del cavaliere mascherato ovvero Tulipani Neri e Stelle della Senna

Al fine di rendere il doveroso omaggio al sovrano della comicità statunitense Mister David Letterman, da poco pensionato dopo quarant’anni passati sulla cresta dell’onda telecatodica, la compagine teatrale Azzèro decide di trabagliare una chicca. Raccontare tra le gardenie santangiolesche la burrascosa quanto appassionante storia d’amore che vide coinvolti proprio il re della battuta amerinda e Miss Piggy. La divina interprete pupazzara. L’operazione scenica prevede l’uso del secolare sistema della commedia girovaga italiota espressa attraverso la maschera cartarifrangente. Una commedia dell’arte lontana dall’ortodossia. Innanzitutto non c’è un canovaccio bensì una puntigliosissima drammaturgia. Poi, a differenza dei frizzi ordinari, qui nessun personaggio soffre di fastidiosi disturbi al sistema ortostatico. Nessuno è curvo. Non ci sono gobbi. Né storti. Tantomeno sciancati. Ci troviamo catapultati all’interno dei turbolenti anni settanta. Anni piombati. L’arredo urbano è quello della Nuova Babilonia. Siamo ospiti dell’efficiente cineporto sito nel rione del Queens. Il barrio adibito alla violenta migrazione ispanica. Il gruppo pezzuolante dei Muppets è già una realtà capace di mietere consensi all’interno della fagocitatoria critica televisiva americana. E che gruppo! Una Bromley Contingent talentifera. Mostri sacri capaci di far tornare John Belushi al corso di dizione organizzato dal dopolavoro ferroviario. Il tapino Gonzo dal naso ganzo, plebeo dal plasma celeste, leggendarie le sue scivolate su feci colitiche. Gremmio, lo scherzo della natura dal sederino rosa con allegato ciuccio caramellato, il principe delle scoregge fatte ad arte. Zamona e Zamone, i mitici fratelli eunuchi. Già star della circensità medrana. Gli anziani patriarchi Statler e Waldorf, meglio conosciuti nella versione italiana con i nomi di Hilton e Waldorf, perennemente martoriati dalla gotta e spesso alla ricerca del più economico dentista abile a riposizionare ortodontici impianti, dulcis in de profundis, Fozzie, l’orsetto perlato buono a raccontare barzellette talmente orrende che non sarebbero riuscite a far scaturire sorrisi nemmeno tra un nugulo di paralitici facciali. Infine imperava lei. Miss Piggy. La superba interprete. Colei che in periodo mattatorale ottocentesco contese scettri e corone a divinità quali la naturale Eleonora Duse, la manierata Adelaide Ristori,la verace Ellen Terry e la peristalsica Giacinta Pezzana. La sublime porcellina altro non era che l’ennesima scoperta artistica del pluricervellotico Kermit. Il leader del gruppo. La mente. L’ideologo. Un rospone talent scout capace di fare ingollare polvere financo al più sovraesposto Claudio Cecchetto. Il gracidante Kermit e la giunonica Miss Piggy erano un’entità unica. Una ditta. Un marchio. Nella vita così come nel lavoro. Una coppia da copertina degna del peggiore periodico cartaceo cairota. Insieme fungevano da vera e propria macchina da soldi. Il pubblico pur di baciare i loro calzari faceva la ressa davanti ai botteghini come nemmeno per gli One Direction. Spesso e volentieri ci scappava anche il defunto. L’emittente televisiva NBC fiutò l’affare proponendo ai fidanzati un contratto pluriennale a molteplici cifre neutre. Era nato il leggendario Muppet Show. Un itinerario Carosello in salsa anglosassone privato di patemi calimerici e digestivi calindrici. Andato in onda per una decade. Serate nelle quali i genitori sbolognavano la prole ai nonni pur di non perdersi mezzo fegatello della diretta. Lo show però per essere completo necessitava di un presentatore utile a dettare modalità, ritmicità oltrechè metratura della recitazione. La produzione corse ai ripari brigando l’onere di organizzare provini dalla provata bolgia dantesca. Casting durissimi che fecero riposizionare la coda tra le gambe a star già allora conosciute come il cinico comico George Carlin piuttosto che il pataccaro cane Ralph. Un timido David Letterman, all’epoca ancora novellista da piano bar, si presentò alle audizioni eseguendo imitazioni vocali che stregarono la commissione castista. Imitò il peto, il pinguino, il pirillo, l’humus, il ficus, il magnetopolus. Imitazioni metafisiche. Iperuraniche. Inafferrabili. Il posto era suo. Furono sufficienti due giri d’orologio per far scattare il cupidigio tra il neoconduttore e la star bresuttata. Letterman e Piggy presero a frequentarsi consumando fugaci amplessi all’interno di motel talmente squallidi da indurre persino i sorci al trasloco. Parafrasando Shakespeare, la loro relazione fu una bestialità a duplice schienale. Lascivia e sensualità. Ragione e sentimento. Orgoglio e pregiudizio. Il tutto ovviamente celato sotto il plaid dell’omertà. Quella segretezza che aggiunge piccantezza ai furtivi sollecitamenti amorosi. Ma un triste giorno l’anfibio scovagenialità sorprese i fedifraghi flirtare dietro le quinte. Manuali cartacei appartenenti alla antica tradizione amatoria orientale parlano del bacio come elemento verticistico dell’intimità. Atto o atteggiamento erotico nel quale entrambe i soggetti sono parte ardente nell’esercizio dell’amplesso. Non vi è un membro a servizio dell’altro. Né albergano servi scenici. La fotografia vivida galeotta fece scivolare chef Kermit verso il tracollo emotivo. Il vicendevole scambio salivare si protrasse oltre la sfuriata. Il ranocchio mise in mostra il lato geloso da essere d’acqua dolce ferito. Venne esercitata pressione per far sì che Letterman subisse la licenziata troncatura. Il giovane si ritrovò a tempo zero sull’asfalto della quinta avenue. Senza un soldo nella saccoccia. Tasche al verde e contabilità in rosso. Solo. La dipartita di Letterman fece precipitare la sopraffina Miss Piggy in uno stato melanconico cronico che ebbe il suo epilogo in un ricovero ospedaliero atto alla cura del disagio psichiatrico. Kermit, cattolicissimo, deturpato nell’onore, domandò l’annullamento del vincolo matrimoniale sia al distretto civile che alla Sacra Rota. Miss Piggy, anch’essa timorata dal divino, non resse all’affronto e si lasciò cadere dalla fiaccola posta in cima alla statua della libertà. L’ex consorte, divorato dal senso della colpa, preferì lasciarsi annegare tra le correnti del fiume Hudson. Un peschereccio finlandese raccolse il corpo privo di vita. Il cadavere venne posto sotto sale e venduto al mercato ittico di Anzio. L’epopea dei gloriosi Muppets era giunta all’epilogo. I pupazzi, orfani del loro mentore e della prima attrice, furono scaricati dall’emittente televisiva in balia della disoccupazione. Molti tra loro si diedero alla sostanza etilica. La maggior parte dei babaci scomparve nel dimenticatoio della meteora. Ma noi preferiamo fornire una versione maggiormente edulcorata della triste vicenda.
Semplicemente questi giganteschi intrattenitori hanno preferito imitare le gesta di antichi dittatori sudamericani. Sono fuoriusciti dalla banale esistenza per intraprendere un trionfale ingresso… nella storia.

La vera vita del cavaliere mascherato… Carri lucenti e cavalli al galoppo.

Cronache Fringeriane 7 Roma Fringe Festival 2015

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 11, 2015 at 3:02 PM

L come Alice. Niente bombi dagli sconosciuti.

Vi ricordate la prima pianura sequenziale di Alice nel paese delle meraviglie? È una giornata torrida. Si sfiata. Alice è nel cortile, ancora incapace di intendere e volere. Bollettino della parrocchia tra le mani. Le vignette della indistruttibile Pimpa. La cagna a pois. Il massimo del ciellinismo. Poi all’improvviso una lepre vestita da broker finanziario le passa davanti in fretta e furia, bestemmiando canzonacce care ai suoi padri. Alice, spinta dalla curiosità, pedina lo strano animale. I due salgono sul mezzo pubblico. Perennemente in ritardo. La bimba si avvicina al bipede orecchiuto domandandogli innocentemente chi fosse e cosa facesse. Il leprone le svela la sua vera identità. È un controllore dell’Atac. Domanda ad Alice il ticket. La pusillanime ne è sprovveduta, e nonostante la giovane età si busca una multa talmente elevata da poter risanare il prodotto interno lordo di uno stato come il Belucistan. Alice torna attapirata dai genitori facendo vedere loro la contravvenzione da poco rimediata. I parenti prossimi vinti dallo sdegno la schiaffano all’immediato dentro il seminario vescovile diocesano sotto la paziente guida del padrino spirituale Don Pino Pudenda. È l’incipit della tragedia ellenica. Ma chi è veramente questa simpatica zuzzurellona talmente curiosa da mandare un ficcanaso come l’itacense Ulisse a scuola?

Alice Sampson. Che sonata per archi! Quale oltraggio! Quanta stangata! Alice Sampson, unicogenita della borghesissima famiglia Sampson. Parvenue verso l’orafismo zecchino. Oriundi della frazione scozzese, trasferiti presso il sobborgo industriale metropolitano nel tentativo di regalare al loro peccaminoso frutto un’avvenire sano intriso di elevata statura morale. Ruini docet. Puritani in attesa del giudizio universale. Dediti all’espiazione dell’originale colpa praticando processioni avventiste verso le sette cattedrali. Una figura materna chioccia a guardia del casolare domestico. Una figura paterna imprenditrice nel settore birrifizio. Spericolate speculazioni in borsa moltiplicheranno i guadagni di famiglia. L’acquisto dell’intero pacchetto azionario della gloriosa compagine calcistica protestante, i leggendari Glasgow Rangers, diventa un’operazione efficace capace di aggiungere ai già portentosi ricavi una planetaria fama. Il dottor Sampson, come un Gabriel Borkman di ibseniana scartoffia, tesse rapporti confidenziali con ambo le schiere dell’emiciclo parlamentare ermellino. Elargisce dazioni ambientali sotto coperta. La camera dei Lord è prona ai suoi plantari. Un magheggio democristiano in salsa cornamusa. Patriarca Sampson saprà traghettare la famiglia lontano anni luce da crolli della borsa e conflitti armati mondiali. Un Mosè liberatore del suo popolo dalla schiavitù d’Egitto. L’umorista britannico dal sigaro facile Sir Winston Churchill lo chiamò a sé come consigliere fiduciario. Sampson grazie alle sue doti diplomatiche riuscì a gestire la vivace conferenza a Yalta, tendendo cheti baffoni sovietici e mingherlini americani. Parafrasando Bogart: è l’onorabilità, bellezza.

Con un nucleo familiare a tale trazione menzognera, la gentile Alice altro non poteva fare che venire allevata nella bambagia. Cresciuta, nutrita, vezzeggiata e reverita a colpi di omogeneizzato e carboidrato raffinato industrialmente. Servitù di colore elargiva la buonanotte rimboccando coperte. Motorino subito. Patente prima di subito. Qualche crisi adolescenzial-esistenziale per banalità quali amori rifiutati e apparecchi ortodontici. Il midollo è razionalizzato. Decurtata la spina dorsale. Dato alle fiamme il sussidiario scolastico. Sollevato l’interesse verso la pericolosa lacciosità emostatica. Dopo aver conseguito il diploma di maturità classica alla Radio Elettra, la germoglia volta alla zona occidentale berlinese frequentando presto la stazione metropolitana sbagliata. Bahnhof Zoo. La frequenza al corso universitario in discipline dello spettacolo non è che un pretesto per soddisfare l’appagamento del vizio. Siamo nel disdicevole anno 1977. le magliette apparivano strappate. Rivernicicate le giacche in cuoio. Alice dai capelli rossi si imbatte negli iconoclasti Sex Pistols. Gruppo musicale padre putativo del punk. In città per una iniziativa benefica. Raccolta fondi a sostegno delle sperimentazioni mediche su fauna indifesa. Il bassista della band, tale Simone Beverlizio, in arte Sid Vicious, un provocatore per antonomasia dedito al pogo nonché allo spadino endoveno, seduce Alice per poi abbandonarla in un ultimo tormentato itinerario verso l’esame della coscienza. La sostanza tossicologica è taglieggiata. Invade il linfatico sistema della pucciola. La ragazza suda. Crolla. Vomita fish&chips. Sviene. Smarrisce consapevolezza nei meandri del panico. Viaggia astralmente, etericamente. Incontra un roditore. È Bugs Bunny. Il roditore sbagliato. Egli la percuote con l’ortaggio. Lily fugge spaventata. Si imbatte in un felino. Privato della camaleontica caratteristica. È gatto Silvestro. Il gatto sbagliato. Il felide la scambia per un grazioso canarino logorroico scagliandole addosso croccantini graminacei. La borghese si dà alla macchia. Viene catturata da un cappellaio. Intento a festeggiare onomastiche ricorrenze. Non è teina la bevanda offerta al ricevimento. Bensì Barbaresco pedemontano. La bevanda sbagliata. Lily galoppa distante a bordo di uno scooter ritoccato. L’esercito delle carte da gioco intima l’arresto domandandole patente e pergamena della circolazione. Non è la regina di cuori a impartire ordini, bensì Elisabetta II di Seborga. Principato. La sovrana sbagliata. Anche le carte non rispondono alla simbologia della quarantesima scala. Sono carte da pinacola. Il gioco da tavola errato. Il trip ha tagliato il traguardo. La rampolla di casa Sampson decede per arresto cardiocircolatorio. Vicious viene arrestato e schiaffato in gattabuia con la pesante accusa di smistamento aggravato da dipartita. Uscirà su cauzione. I coniugi Sampson distrutti dal dolore si tramuteranno in strofinacci. Cenciosità melanconiche. Affari trascurati. Assicurato lastrico. Ricovero presso la casa del riposo per anziani. Sepoltura nella comune fossa. Come la malcagata plebe. Affiancando la lapide del prodigioso Mozart però. Sai che soddisfazione…

Grazie anche ad un uso dell’oggettistica che avrebbe fatto pervenire la lesmaniosi al sagace Duca di Meiningen e ad una destrezza favellatoria da osteopatia della cavità orale, l’elemento carnale su palco ripropone l’incubo di questa Christiane F. in salsa ottocentesca senza però trascurare la tragedia del nucleo familiare. Gente verso la quale financò i Buddenbrook a confronto sembrano Gastoni disneyani baciati dalla bendata Divinità. Sulle labbra ovviamente…

L. come Alice. Non giudicate mai fortunato un individuo sino all’ultimo dei suoi giorni. Lo sottoscrisse Lewis Carroll collaborando ai testi degli arrabbiatissimi Clash. Lo affermò Creonte congedando Edipo. Ma questa è un altra droga.
Sandinista!

Cronache Fringeriane 6 Roma Fringe Festival 2015

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 9, 2015 at 2:00 PM

Il milapoletano: tammurriata azzura

Sull’asse terrestre meneghino-partenopeo si consuma la reminiscenza proustiana di un ragazzo nato all’ombra del Vesuvio ma residente sotto la guglia del duomo per motivazioni di carattere bocconiano, il quale trasmette per viabilità orale i bagordi del primo scudetto firmato Ferlaino festeggiato in terra nemica tra zafferani risotti e panini al gorgonzola. Una trasferta eterna quanto un percorso studentesco universitario disseminato di appelli saltati e statini andati in sulfumigio. Per il giovane guaglione la nebbia valpadana appare come un boccone indigesto sin dal primo sbarco al binario quinto della stazione Lambrate. Il corollario politico nordista è quello socialista. La Milano da bere e da bersi in un sorso solo. I soldi, quelli veri, tangibili, al nero, girano vorticosamente quanto una testa rossa sul circuito automobilistico monzese. Come se non bastasse, la federalista lega giussana targata Miglio comincia a soffiare i principali ruttini ottenendo consensi all’interno delle urne elettorali. Ma non basta. Il virgulto pompeiano adora il teatro. La prosa. Petito. Scarpetta. Titina. Eduardo. Peppino. Tato Russo. Financo Gigi Reder. I mostri sacri della tradizione scenica sancarlina. Adiacenza Madonnina, in quegli anni tremeabondi, il teatro ammiccava verso la decadenza. Zefiri autografati Drive In soffiavano violenti catalizzando l’attenzione del cittadino polentone. Paninari agghindati piumino miglioravano le prestazioni dei loro setti nasali odorando cassüoela settati comodamente tra i tavolini della cremeria. I pasti erano trittici. Rigorosamente Burgy. L’arsura veniva placata ingollando quantità oceaniche di bevanda gassata nobilitata dal saccherosio industriale. La parete occidentale della muraglia berlinese si pensava potesse essere quella giusta. L’unica. L’intramontabile. L’atto sessuale era promiscuo, omeopaticamente protetto dalla velina in lattice nonostante imperversasse lo spauracchio gonorroico. Reagan era la guida politica. Il pontefice polacco quella spirituale. Il cavaliere del lavoro la guida telecatodica. Il cigno di Utrecht quella sportiva. Prigioniero come il Jack Nicholson del kubrickiano Shining di questo labirinto milanese, il protagonista di questo monologo a tappe ciclistiche, pascola tra le balere naviglie alla ricerca del riscatto. Una risalita necessaria della china atta a scongiurare scherni milanisti, sberleffi interisti nonché rifiuti sentimentali elargiti da stilose modelle. Il napoletano, individuo solitario allo sbaraglio, affoga i dispiaceri infilando la testa nel Torreggiano al Lambro Parco. Sarà forse il dirigista triestino Giorgio Strehler a salvificarlo scritturandolo come Gennarino delle Spelonche nell’opera brechtiana ‘Da trenta dinari’, oppure sarà la tessera alla partitocrazia del garofano rosso a spalancargli i portoni verso dedali differenti? Nessuna di codeste sventure. Il toccasana prenderà l’aspetto della terza via. Una via chiamata Pibe de Oro, un fuoriclasse argentino nato tra i peggiori barrii della Bombonera, capace oltre che di dare del tu al pallone, anche di recitare amletici dubbi in idioma amalfitano. Utilizzando una misura vocale da pax montiana pronta a donare un’atmosfera distante anni luce dallo ormai smunto cabaret televisivo.

Milapoletano… o i ragazzi della Curva B!

Cronache Fringeriane 5 Roma Fringe Festival 2015

In Cronache Roma Fringe Festival 2015 on giugno 8, 2015 at 12:43 PM

Giardino. Il pitale è piombo pesante come piuma.

Bethel. Minuscolo borgo situato ai confini dello stato della Nuova Babilonia. Siamo nell’anno disgrazievole 1969. I centauri Hell’s Angels seminano il panico a bordo dei loro scassatissimi chopper capitanati dal caudillo Ralph Sonny Barger con l’intento di scortare indomite pietre rotolanti sul palco del festival canoro woodstockiano a solfeggiare motivetti musicali sulla difficoltà ad ottenere soddisfazione. Qualsiasi soddisfazione. Fosse pure l’ultima. Il periodo è di quelli più travagliati e trambusti del breve secolo novecentesco. Primavere praghensi e rubri manualetti cartacei di mandarino pugno sobillano la gioventù ad inscenare la rivolta occupando la ribalta. Saranno loro, i rampolli, a sovvertire il sistema per poi restaurarlo peggiorando ciò che non si pensava potesse essere peggiorato. Da provetti rivoltosi divoratori del verbo sartriano, i giubili giulebbati si troveranno presto a ricoprire ruoli tipici della futura borghesia capitalista. Solo che ancora non ne sono consapevoli. Terminate le dodicesime fatiche erculee della decennale guerra troiana, vincitori e vinti accompagnati dal parentado, decidono di riparare proprio a Bethel, dove da immemorando la comunità ellenica strimpella il curandero in attesa dell’agognato posto professionale gentilmente rilasciato dall’istituzione locale. Presso Bethel si era già rifugiato il reggente tebano Edipo dopo essere stato sorpreso dall’autorità giudiziaria in adulterio con la sifilitica sfinge. A Bethel erano fuggiti invasati d’amore l’adone Emone in compagnia della limitata Ismene, lasciando Antigone in balia della disperazione. Sempre a Bethel i fratelli coltelli Eteocle e Polinice avevano messo su una catena di ghiosterie seppellendo antichi rancori sotto la coltre dell’I.V.A. Partita. A Bethel le baccanti erano riuscite a farsi scritturare nelle migliori sale teatrali broadwayane. A Bethel Tiresia aveva riacquistato la vista grazie ad un prodigioso intervento chirurgico atto a debellare orzaioli e cataratte. A Bethel Penelope terminò la tessitura della tela brevettandola sotto l’egida trussardina. A Bethel Medea dalla acuta permalosità e Giasone l’infoiato ci riprovano, ma questa volta anziché sfornare figli naturali, si accontentano di legittimare un paio di criceti, tolti dalla mano assassina della sperimentazione scientifica. A Bethel il timorato Admeto permise alla sagace Alcesti di deflettere in barba all’eutanasia senza che il procace Eracle dovesse perorare cause perse di radicali partitocrazie. A Bethel Priamo detto la macchina ebbe altri cento amplessi, generando altri cento figli. Biondi dalla carnagione ebana però. Paride dagli occhi glaciali divenne fotomodello. Ettore dai modi gentili volontario alla Croce Rossa. Menelao aprì una catena di junk food. Elena la bella sì riciclò come stilista. Andromaca fu intima con la famiglia Hilton. L’ambizioso Agamemnone venne sconfitto dal videogenico John Fitzgerald Kennedy durante le combattutissime presidenziali del 1960. Ecuba trovò una scrittura all’interno della circensità fratellina. Cassandra aprì un servizio sanitario di quadrupedi guida per individui ciecati oltre a elargire tarocchi e procurare fattura. L’oracolo di Apollo a Delphi, profeta delle incresciose sciagure, affiancò Henry Kissinger nella veste di attendibile e fidato consigliere statale. Achille piè puzzolente e il fraterno amico Patroclo denominato l’emotivo spalancarono una palestra. Cardiofitness e dieta nutrizionista. Le ex ancelle Briseide e Criseide organizzavano la sezione pilates dando alle stampe un ottimo esempio di nuclearità familiare allargata. Si riciclarono tutti insomma. Compreso il cane Argo. Tutti, dagli Achei agli Atridi, transitando per le Eumenidi. Tutte le famiglie della sacra corono epicistica ellenica riuscirono ad eludere l’iniziale diffidenza degli autoctoni anglo-americani, ottenendo posizioni elevate nonché sormontature sociali. Il mito è riscritto. Da eroi senza macchia e senza terra a selfmademen tanto cari all’apparato finanziario plutoilluminato che tiene serrati i cardini del borsino affaristico. Tutti tranne lui. Ippolito. Un discolo disinteressato a partigiani terrorismi e serrati pugni. Indifferente verso la carriera. Per nulla propenso a farsi un nome. Un cognome. Un soprannome. Un nome d’arte. Derisorio del riscatto familiare. Esige consumare le sue noiose giornate tra un onanismo e bastimenti di cioccolata alla nocciola. Le ascelle pezzano, l’alito sa di bagordo. L’alluce è valgo. Flaccido il muscolo. Intensivo il poltrire sull’amaca. Sporca di pesto genovese la canotta. Ippolito è la metastasi tesea registrata all’anagrafe presso l’Isola di Staten Island. Un disastro diplomatico. Alla devota Fedra, sua parente prossima, non sarà sufficiente recitare nel capolavoro edwardiano Colazione da Tiffany per resuscitarne la posizione. Insieme alla postazione. Questa è la vicenda che la psichedelica compagine teatrale ossimorica civitavecchina I nani inani presenta sulle tavole del palcoscenico nel tunnel denominato giardino. Un acido che titilla capitoline cantinate e masochismo marinettista, sciabordìo mattatorale arcaico e saltimbancheria da periodo oscuro, ombra mongolica e planimetria asfaltatrice. O forse nulla di tutto questo. L’inventore del sintetismo tossicologico, il chimico Albert Hofmann ancora respira, dirige marionette obbligandole a suggere elidi prepuziali per poi ingollare voluttuosità al sapore di melassa. E se non fosse che dimorano dietro le sbarre della confortevole colonia penale, oseresti dire che sono proprio l’ex patron fantasista finanziario Tanzi e il ghiandaio Ghirardi, le marionette calienti pronte a scambiarsi quel reciproco favore orale finale protraibile nel tempo, assimilabile nello spazio…

Giardino… laddove financo i Pink Floyd ci sarebbero andati cauti…